Pregiudizi da superare e utilità nelle problematiche psicologiche. Ecco cosa ci hanno detto le psicoterapeute Daniela Carissimi e Veronica Petraglia in un’intervista concessa in esclusiva alla rivista LucidaMente.
L’ipnosi viene sempre più spesso utilizzata a scopo terapeutico. Di che cosa si tratta? È giustificata l’apprensione che può creare il saperci guidati nell’inconscio da un individuo diverso da noi? Abbiamo rivolto qualche domanda al riguardo a due esponenti dell’associazione Quoziente Emotivo Academy (www.qeacademy.it), che raccoglie professionisti di diversi orientamenti, i quali utilizzano il potenziale emotivo e immaginativo – personale e del paziente – come strumento di apprendimento e comunicazione: la psicoterapeuta Daniela Carissimi, appunto presidente dell’academy, e la collega Veronica Petraglia.
Dottoresse Carissimi e Petraglia, che cos’è l’ipnosi clinica?
«Occorre innanzitutto fare chiarezza su che cosa sia l’ipnosi. Contrariamente a quanto in genere si pensa, essa non è uno stato mentale alterato, bensì naturale, dal quale entriamo e usciamo – spesso senza consapevolezza – diverse volte nell’arco della giornata. L’ipnosi è una condizione psicofisica, una finestra che si apre sull’immaginario. Attraverso tale dimensioneil paziente viene a contatto con la pienezza della propria interiorità, con l’immaginario stesso e con la propria parte emozionale; è importante accettare che tutte le passioni sono risorse essenziali da imparare a usare. Si parla di ipnosi clinica quando questa viene praticata a scopi terapeutici, lavorando sul significato metaforico, simbolico o energetico dei sintomi fisici ed entrando nell’ottica che ognuno di essi è un messaggio che una parte di noi ci sta mandando attraverso il corpo. La terapia ricorre allo stato ipnotico del paziente per focalizzare l’obiettivo da raggiungere e i mezzi da utilizzare e deve necessariamente essere guidata da un esperto».
In quali momenti della giornata entriamo e usciamo dall’ipnosi senza accorgercene?
«Ogni volta che esprimiamo l’arte in qualsiasi sua forma: musica, pittura, scultura, scrittura sono soltanto alcuni dei casi in cui chi vi è immerso entra in uno stato di trance, un “altrove mentale”. Altro esempio: lo sport. Un giocatore di tennis, quando è impegnato a colpire la pallina, non sta pensando ad altro. In generale, tutte le situazioni di focalizzazione – intese come concentrazione esclusiva – racchiudono l’ipnosi. Una delle sue modalità è la focalizzazione sul respiro. Durante tante attività, compreso lo yoga, si sviluppano, una dopo l’altra, svariate forme di trance».
Quali sono le origini dell’ipnosi clinica?
«Le radici di questa pratica sono antichissime, anche se non sappiamo se ve ne fosse consapevolezza. In Egitto e in Grecia le persone trovavano nei “templi del sonno” la giusta cura ai loro problemi fisici e/o mentali. A guarirli erano, appunto, il sonno e il sogno; in altre parole, il contatto con loro stessi. I sacerdoti si limitavano ad accompagnarli a dormire. Questa è l’origine di un concetto odierno fondamentale: la possibilità di contattare l’inconscio attraverso una modalità diversa dalla veglia. Altro esempio significativo nella storia: durante i loro riti di iniziazione, i ragazzi indiani Chippewa [una tribù degli indiani d’America, ndr] venivano indotti a cullarsi in un sogno considerato magico per le cantilene dello stregone. In questa sorta di ipnosi di gruppo venivano trasmesse delle suggestioni di forza e di possibilità. Ecco un esempio dell’utilizzo dell’ipnosi in clinica: il fornire, attraverso metafore, racconti e immagini,spunti che arricchiscano o risveglino l’immaginario del paziente per fargli trovare soluzioni».
E in tempi più recenti?
«Il padre dell’ipnosi moderna è Milton Erickson [1901-1980, ndr], che nel primo Novecento ha liberato l’ipnosi dall’alone esoterico, rendendola un campo di indagine scientifica e di applicazione terapeutica. Secondo questo pensiero, l’inconscio è il luogo in cui sono racchiuse tutte le possibilità di soluzione e tutte le risorse: un grande mare di idee, dove si trova quella parte di noi che sa sciogliere dubbi, sostenere e curare».
Come si svolge una seduta tipo?
«Il terapeuta deve innanzitutto comprendere ansietà e timori ma soprattutto il mondo e il linguaggio di ciascun soggetto nei confronti di questa modalità; quindi, prima di iniziare il lavoro, deve porsi degli obiettivi da raggiungere. Egli, infatti, non si presta a soddisfare mere curiosità del paziente, ma utilizza l’ipnosi clinica soltanto in casi concreti da risolvere. Non esiste un’unica modalità per indurla poiché è uno stato mentale che nasce dalla relazione tra medico e paziente. Nel rapporto terapeutico l’ipnosi diventa una via da percorrere insieme per accompagnare la persona a conoscersi, sviluppando confidenza in sé e nelle proprie risorse con un intervento versatile e creativo che la trasforma in arte del curare».
Quali sono le problematiche che più spesso vengono risolte tramite questa tecnica?
«Non vi è un aspetto specifico di questioni critiche da risolvere con l’ipnosi clinica, per cui il ventaglio è molto ampio: dai problemi psicosomatici a quelli relazionali e ai lutti. Ma anche – non da ultimo – ansietà, attacchi di panico e la rabbia che il paziente prova e di cui vorrebbe liberarsi».
Quali tipi di rabbia vengono affrontati durante la terapia?
«Tanti quanti sono gli individui da curare: ognuno di loro racchiude in sé un tipo di rabbia diversa. Esiste sempre un collegamento tra l’immaginario (il vissuto interiore) e la manifestazione di essa. Il terapeuta non può suggerire al paziente la giusta modalità perché deve tenere conto del contesto singolo e della situazione in cui egli vive. L’importante è che il soggetto riconosca consapevolmente la propria rabbia, con la libertà di sperimentarla. Spesso se ne spaventa e non tollera il fatto che la stia provando: occorre aprire questi circoli viziosi che non fanno altro che aumentare la sua sofferenza. In linea generale, l’ipnosi clinica affronta quella rabbia che non trova il giusto modo di esprimersi, quella che non si sente libera di esistere, ma che nega oppure nutrese stessa, autoalimentandosi. È importante aiutare il paziente a definire meglio il senso, la direzione, l’immagine di essa: ciò gli consente di iniziare un dialogo con la propria parte adirata, imparando a usarla. Si tratta di un sentimento legato al passato, che guarda e soppesa fatti già accaduti: è un’energia che tiene imbrigliati in un trascorso con il quale si continua a fare i conti, impedendo di procedere. La direzione verso cui l’ira è rivolta è spesso di difficile comprensione per il paziente. Quella non espressa si scarica sul corpo ed è autolesiva».
E la paura che ruolo ha nella nostra psiche?
«La rabbia è figlia della paura, una delle prime emozioni che l’individuo prova e che ha una funzione importantissima nella sua psiche: le emozioni sono dialoghi che egli fa con se stesso, cui è fondamentale rispondere in maniera adeguata. Tali reazioni devono venire da vicino – genitori ed educatori – in modo che già dalla primissima infanzia egli impari via via a rispondere autonomamente ai propri timori. La paura, se ben utilizzata, è uno strumento sul quale l’individuo può far leva per conoscere l’ambiente e costruire la propria sicurezza. Diventa invece negativa quando induce a chiudersi in se stessi, evitando i contatti o limitando la curiosità nel comprendere il mondo interiore e/o esteriore».
Torniamo all’ipnosi: in che cosa si differenzia dallo stato di sonno e da quello di veglia?
«Per chi la vive, si differenzia da quello di sonno per un maggior contatto con l’ambiente. Ma questo non deve intimorirci: occorre infatti sfatare il concetto secondo cui nello stato di ipnosi si perde coscienza e il soggetto viene manipolato. Tutte le suggestioni – intese come suggerimenti del terapeuta – vengono da lui recepite soltanto qualora le senta consone ai propri codici etici. Confrontiamo invece l’ipnosi con lo stato di veglia: nel primo caso il terapeuta dirige l’attenzione del paziente a concentrarsi su qualcosa di specifico, mentre nel secondo il pensiero è multifocalizzato».